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Il mondo della politica oligarchica definì un mondo di congiure, di tranelli, di trappole tese da "mani invisibili", un mondo all'interno del quale l'esercizio del potere non doveva essere né "affare di tutti", né "a vantaggio di tutti", ma una "questione elitaria", contraddizione di qualunque spazio pubblico democratico. L'affermarsi di una politica oligarchica come perversione della democrazia, però, non va ricercata solo nella naturale "imperfezione" dell'essere umano e dei prodotti del suo operato a cui si può sempre porre rimedio, non essendo l'individuo uno sterile monolito, ma un essere versatile capace di cambiamento, quanto nel tratto fondante della formazione della  polis (intesa come comunità politica). L'aristocrazia poté imporsi poiché, potenzialmente, la polis già vi si predisponeva, in quanto si fondava su un diritto di cittadinanza assai esclusivo. La collettività politica cui era concesso l'accesso allo spazio pubblico, prima di essere sopraffatta da una oligarchia, aveva, in precedenza, già sopraffatto gran parte dei membri della città escludendoli dallo spazio politico ed autodefinendosi come "comunità di migliori". Non c'è, quindi, una contraddizione tra pubblico e privato, che, invece, si integrano nel momento in cui necessitano l'uno dell'altro per definire la loro specificità, ma tra ethos democratico (spirito pubblico) ed ethos aristocratico (il rifiuto del principio della partecipazione di tutti i cittadini al governo della città). Il "pubblico", allora, non è annullato solo dal "segreto" dei circoli oligarchici, dalle trame occulte di minoranze eversive intese a sfaldare la compattezza del demos, ma, anche e soprattutto, dalla pratica politica dell'esclusione esercitata da un governo legittimo.

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