La democrazia antica si fondava sul principio secondo il quale i problemi che riguardavano la comunità andavano risolti collettivamente. Al termine del dibattito, la decisione presa risultava una confluenza tra l'interesse dei governanti e quello dei governati: l'arbitrio individuale si dissolveva all'interno dell'interesse comune sugli affari pubblici. Appartenere alla polis, quindi, significava appartenere ad un gruppo che insieme decideva del proprio futuro. Il singolo governante "era la polis" nel senso che era espressione del popolo, era un "rappresentante" che agiva insieme con il popolo, non un "prescelto" cui, al momento dell'elezione, veniva concessa la facoltà di esercitare il potere senza rendere conto a nessuno. Il governante era parte integrante ed integrata del processo decisionale collettivo, ed il privato dei suoi interessi e del suo agire non poteva divergere da quello dell'intera comunità. Il governante condivideva il potere con i governati, e la decisione presa collettivamente si fondava sull'isonomia, l'eguaglianza degli individui di fronte alla legge, uno dei principi fondamentali della democrazia presso gli antichi Greci. Al fine di controllare l'esercizio del potere, tutte le decisioni venivano prese in comune ed ogni incarico, all'interno della città, veniva assegnato attraverso il sorteggio. Al contrario, il potere arbitrario, la cui prerogativa era quella di sottrarsi a qualsiasi controllo, si fondava esclusivamente su decisioni private non soggette ad alcun rendiconto. Se l'illimitatezza del potere, gestita come imposizione unilaterale attraverso la violenza, caratterizzava i principi fondanti del governo antidemocratico, la limitazione di quel potere, al contrario, garantiva i principi essenziali della democrazia, poiché solo nel momento in cui i governati consideravano razionalmente il senso compiuto degli atti di governo (la coerenza di un "percorso" con un inizio ed una fine), era possibile che lo controllassero e lo giudicassero. I membri della polis, nell'esigere un rendiconto dai governanti sull'esercizio del potere, lo legittimavano dal momento che diventavano parte integrante della formazione della decisione e, di conseguenza, responsabili delle conseguenze che avesse comportato. Se la trasparenza era, quindi, la prerogativa della dimensione pubblica in cui il soggetto agiva in sintonia con la collettività e le decisioni erano prese davanti agli occhi di tutti, la segretezza dell'esercizio del potere, che in ogni modo cercava di eludere quello sguardo(1) per evitare di essere messo in discussione, rappresentava la contraddizione della dimensione pubblica.
A questo punto, credo sia necessaria una distinzione: se il pubblico ed il privato si contrapponevano, il pubblico ed il segreto, all'opposto, si contraddicevano. Il privato, infatti, lo spazio in cui si esprimevano la diversità e le capacità individuali del capofamiglia nella conduzione del nucleo familiare, di certo si contrapponeva al pubblico, al regno dell'uguaglianza e dell'omologia, ma non lo negava. Il pubblico ed il privato rappresentavano la convivenza di due opposti, due ambiti distinti che non esistevano separatamente. Il segreto, invece, l'agire al di fuori della dialettica dell'assemblea, contraddiceva il pubblico, negandolo nel tentativo di sostenere una politica aristocratica. Era il tentativo di prendere le distanze dalla collettività affinché il volere autoritario di pochi si imponesse alle scelte politiche nate dalla sfera pubblica. La segretezza, come caratteristica rilevante dell'agire politico antidemocratico, esigeva, da un lato, la totale soppressione di ogni spazio pubblico, di ogni luogo di raduno e di discussione della collettività, dall'altro, un clima di paura alimentato da false informazioni, al fine di gettare il popolo nello smarrimento, e, nel panico generale, erodere le difese della collettività democratica. Fomentare la discordia e la lotta servì, in gran misura, per instaurare la tirannide o una forma di potere oligarchico il cui tratto caratteristico fu quello di fare ricadere pericoli ed oneri sulla maggioranza, affinché i governanti si accaparrassero ulteriori ricchezze ed incrementassero il loro potere. Alla democrazia, che si sviluppava attraverso la trasparenza nei rapporti tra gli individui, si contrappose la pratica dell'oligarchica, occulta, segreta, indiretta, tendente ad assicurare la gestione politica a pochi, nei rigidi limiti di un'amministrazione del potere "privatistica".
Il mondo della politica oligarchica definì un mondo di congiure, di tranelli, di trappole tese da "mani invisibili", un mondo all'interno del quale l'esercizio del potere non doveva essere né "affare di tutti", né "a vantaggio di tutti", ma una "questione elitaria", contraddizione di qualunque spazio pubblico democratico. L'affermarsi di una politica oligarchica come perversione della democrazia, però, non va ricercata solo nella naturale "imperfezione" dell'essere umano e dei prodotti del suo operato a cui si può sempre porre rimedio, non essendo l'individuo uno sterile monolito, ma un essere versatile capace di cambiamento, quanto nel tratto fondante della formazione della polis (intesa come comunità politica). L'aristocrazia poté imporsi poiché, potenzialmente, la polis già vi si predisponeva, in quanto si fondava su un diritto di cittadinanza assai esclusivo. La collettività politica cui era concesso l'accesso allo spazio pubblico, prima di essere sopraffatta da una oligarchia, aveva, in precedenza, già sopraffatto gran parte dei membri della città escludendoli dallo spazio politico ed autodefinendosi come "comunità di migliori". Non c'è, quindi, una contraddizione tra pubblico e privato, che, invece, si integrano nel momento in cui necessitano l'uno dell'altro per definire la loro specificità, ma tra ethos democratico (spirito pubblico) ed ethos aristocratico (il rifiuto del principio della partecipazione di tutti i cittadini al governo della città). Il "pubblico", allora, non è annullato solo dal "segreto" dei circoli oligarchici, dalle trame occulte di minoranze eversive intese a sfaldare la compattezza del demos, ma, anche e soprattutto, dalla pratica politica dell'esclusione esercitata da un governo legittimo.
Focalizzata la contraddizione tra il governare "in pubblico" ed "in segreto", che, a mio parere, supera i limiti temporali della polis greca, è possibile approfondire il concetto di "pubblicità" . L'approccio analitico di Kant parte dal bisogno di un corretto uso della ragione all'interno di uno spazio pubblico politico. La collettività, l'insieme di individui facenti parte di un ordine civile, deve esigere la divulgazione degli atti di governo poiché solo in questo modo è possibile giudicare(2) quegli atti razionalmente, e, di conseguenza, influenzare l'esercizio del potere (per esempio modificando leggi ingiuste o cambiando governanti incapaci). Solo quando il potere è visibile agli individui, è anche giudicabile, e quindi legittimo, poiché passa costantemente al vaglio di coloro sui quali si esercita. La "pubblicità" (in uno stato repubblicano, direbbe Kant, io intendo, invece, in uno stato democratico) deve accompagnare qualunque atto di governo dal momento che il semplice fatto di volere nascondere ai cittadini qualcosa implica che quel qualcosa è ingiusto nei confronti di qualcuno, e, di conseguenza, impraticabile. La censura manovrata dal potere politico diviene l'esatto contrario del principio della pubblicità kantiano: il segreto, la sfera sottratta al controllo pubblico e morale, nega lo sviluppo democratico la cui dinamica aumenta solo al diminuire di quello spazio politico sottratto all'opinione pubblica.
La "pubblicità" e l'opinione pubblica, quindi, prendono vita dal libero dibattito tra i cittadini. Lo "scambio razionale" caratterizza le scelte politiche in uno spazio democratico. E' l'accordo di liberi cittadini, ognuno dei quali può esprimere, senza alcun impedimento, anche la propria obiezione o il proprio dissenso, e , al contempo, è la possibilità di controllare la pratica del potere.
Una precisazione dello stesso Kant, a riguardo, è molto importante : il dibattito tra i cittadini non è razionale perché viene condotto secondo delle leggi o degli ordini, né perché si realizza su presupposti comuni, ma perché è un processo di formazione della decisione da parte di una pluralità di partecipanti, il cui coordinamento non è garantito o imposto da un governante o da altre forme di potere. In altre parole, i ragionamenti e le azioni degli individui non devono essere soggetti alla supervisione di una autorità che vincola coloro che vi sono sottoposti. Affinché questo, però, non produca condizioni di squilibrio tra i partecipanti al dibattito, e non allontani da un'intesa generale capace di risolvere i conflitti tra i diversi punti di vista, Kant ritiene necessario che la ragione si autodisciplini: l'individuo deve rifiutare le forme di autorità esterna che non siano razionalmente fondate, e deve conformare il proprio agire solo a quei principi che vorrebbe far valere come leggi universali (ad esempio il "non fare ad altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi"). La ragione "si limita" a tracciare rigorosi confini del pensare e dell'agire esclusivamente all'interno di un proposito possibile: un progetto razionalmente realizzabile. Per tale motivo, Kant contrappone senza mezzi termini coloro che si sottomettono ad autorità trascendentali e alle opinione altrui a coloro che, invece, parlano pubblicamente esibendo le loro proprie idee razionalmente fondate. Il pubblico uso della ragione (3) non si definisce dal fatto di avere un ampio uditorio (che sia un pubblico di lettori, o di spettatori, è indifferente), e nemmeno dal fatto di avvenire in un servizio pubblico, dove relazioni di comando e obbedienza permettono solo un privato uso della ragione. L'uso pubblico della ragione consiste nel non accettare alcuna autorità esterna irrazionalmente fondata. E' l'autonomia dell'individuo che, come la intende Kant, non si riduce all'autoaffermazione o all'indipendenza, ma comprende piuttosto il pensare e l'agire secondo principi che non rinviano ad alcun autorità infondata, quindi secondo principi che tutti possono condividere ed accettare come propri. Vivere secondo i principi della ragione che permea le pratiche di autonomia nel pensare e nel fare. Kant ricompone e approfondisce il nucleo centrale dell'illuminismo dimostrando che la ragione, correttamente intesa, è il principio del pensare e dell'agire secondo principi che tutti possono liberamente adottare. L'illuminismo è l'autonomia, nell'elaborazione delle idee e nella pratica delle azioni, che mantiene il carattere di legittimità senza presumere alcun legislatore. Una disciplina negativa intesa ad evitare il "pensare disorientato".
A questo punto, Kant introduce la nozione di sensus communis, come necessaria condizione della comunicabilità universale della nostra conoscenza, attraverso tre massime presentate per esemplificare i requisiti che preservano la legittimità senza presumere un legislatore. Queste sono massime necessarie ad una "pluralità senza armonia prestabilita", ovvero, ad una moltitudine di individui che possono relazionarsi anche in mancanza di un programma condiviso predefinito . Le tre massime stimolano gli individui sia a pensare secondo i propri interessi, che a pensare dal punto di vista di ogni altro partecipante al dibattito, mantenendo in entrambi i casi la regola della coerenza, della compatibilità con gli altri e della costanza nell'operato .
La prima massima kantiana vieta la sottomissione ad autorità esterne. Questo rifiuto alla sottomissione, però, se non contestualizzato, potrebbe portare all'anarchia o all'isolamento. La seconda massima prescrive l'antidoto all'anarchia e all'isolamento esigendo che gli individui pensino anche dal punto di vista di altri, ovvero, che il loro pensare si basi su principi "aperti" a tutti gli altri. In questo modo, ogni processo del pensiero e dell'azione, guidato dal rifiuto a sottomettersi ad un legislatore esterno e dall'apertura al confronto con gli altri, sarà sottoposto ad una costante rimessa in discussione che inevitabilmente genera contraddizioni e lacune (non necessariamente connotate da accezione negativa). Da qui il bisogno della terza massima: il processo di ripristino attraverso un coerente riesame e la conseguente correzione degli errori. L'intreccio dei "fili" del pensare e dell'agire da parte di un insieme di individui che discutono razionalmente senza fare riferimento ad alcuna autorità esterna, e che si pongono in prospettive di analisi non proprie per approfondire meglio i problemi, potrebbe formare un "tessuto" imperfetto. La capacità di revisione della ragione umana interviene, in questo caso, ad eliminare le imperfezioni, a "compattare il tessuto".
In sintesi, quindi, la difesa kantiana della ragione presuppone: la possibilità che una collettività si raccolga senza un accordo prestabilito che accomuni i membri; il rifiuto di sottomettersi a poteri che traggono la loro ragione d'essere da supposte realtà trascendentali; il divieto di rimettersi all'autorevolezza di qualche legislatore; principi fondanti del pensare e del fare perseguibili da tutti. Sono le limitazioni necessarie ad un processo dinamico di formazione della decisione all'interno di una pluralità di individui, in cui si realizza la legalità anche in mancanza di un legislatore .
(1) "Le città greche sono di dimensioni piuttosto piccole, poiché si tratta di 'società del faccia a faccia' . In teoria, tutti si conoscono, tutti si parlano…Si vive sotto lo sguardo altrui ; si esiste in funzione di ciò che gli altri vedono di voi, di ciò che ne dicono, della stima in cui vi tengono . Ciò che un uomo è, il suo valore, la sua identità implicano che egli sia riconosciuto dal gruppo dei suoi pari". (Jean Pierre Vernant, Tra mito e politica, Raffaello Cortina, Milano 1998, p.227)
(2) Nella Critica del giudizio, Kant definisce il "giudizio" in termini di attività capace di sussumere il particolare sotto l'universale . Chiama giudizio la "facoltà di pensare il particolare", e pensare il particolare naturalmente significa portarlo sotto un concetto generale . Inoltre Kant sostiene che l'attività del giudizio è sociale, dal momento che i nostri giudizi estetici si riferiscono ad un mondo comune o condiviso, a ciò che appare pubblicamente a tutti i soggetti giudicanti . In altre parole, non si giudica mai solo per se stessi, giacché l'atto di giudicare implica sempre il compito di comunicare il proprio giudizio : il giudizio è reso in modo da persuadere gli altri della sua validità . Questo sforzo di persuasione fornisce la vera ragione d'essere del giudizio .
(3) Nel breve saggio di Kant, Cos'è l'illuminismo , il concetto di "uso pubblico della ragione" si riferisce, in particolare, al problema della libertà di stampa nell'età dell'illuminismo . Ciò che estende il campo d'applicazione di questo concetto è l'idea che pensare in pubblico può costituire il pensiero come tale , nel senso che la presentazione pubblica delle idee, in conferenze pubbliche e dibattiti, è assolutamente indispensabile per il progresso dell'illuminismo . E non solo nel senso che i pensieri, una volta pubblicati, dovrebbero essere messi in circolazione il più ampiamente possibile, ma anche, in un senso più profondo, che essi traggono giovamento nel loro sviluppo da uno scambio di vedute di natura universale . Infatti, il diritto di sottoporre i giudizi di qualcuno ad un controllo pubblico, prima che vengano divulgati nella "società cosmopolita", è necessario per il progresso, la libertà e l'insegnamento