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L’immagine mitica della polis non deve trarre in inganno l'osservatore contemporaneo che si interroghi sulla effettiva libertà dei membri di quella organizzazione politica, poiché l’esclusività ne era il tratto caratteristico costitutivo. Dallo spazio pubblico erano esclusi tutti coloro che non fossero uomini e proprietari .“Senza possedere una casa un uomo non poteva partecipare agli affari del mondo, perché in esso non aveva un luogo che fosse propriamente suo”(1) .

Per le donne, per gli schiavi, per i lavoratori manuali e per gli stranieri, lo spazio pubblico era uno spazio chiuso che opponeva barriere d’ingresso insormontabili e tali da ridurlo, ai loro occhi, ad uno spazio privato allargato, luogo delle "esibizioni" di coloro che avevano la possibilità di mantenersi indipendenti dagli altri. Gli uomini, possidenti all’interno della polis, vivevano nello spazio pubblico solo con i propri pari e solo con essi, da "eguali", intrattenevano relazioni pubbliche da cui erano rigorosamente esclusi tutti gli "ineguali", che rappresentavano, per quantità, la maggioranza della popolazione. I cittadini cui era concesso di partecipare al governo della vita pubblica erano i soli che godevano dell'isonomia (uguaglianza di fronte alla legge), dell'isegoria (uguale libertà di parola), della parità dei diritti civili e politici e che potevano intervenire a tutte le manifestazioni religiose e civili della vita della città. Soltanto il possesso di queste prerogative garantiva la possibilità di esercitare il potere diventando membri dell'ecclesia, della bulè, dell'eliea, oppure delle magistrature di ordine politico o amministrativo. La comunità quindi si integrava di cittadini liberi, proprietari e sovrani di un territorio limitato su cui erano stanziati e che all'occorrenza difendevano con le armi, e di contadini, servi, artigiani e mercanti che provvedevano ai suoi bisogni senza farne parte politicamente. E' necessario sottolineare che, in tale forma di democrazia antica, tra i politai, i cittadini veri e propri che dominavano la comunità degli esclusi, vigeva una sorta di parità dell'inclusione. Nella sfera pubblica, infatti, si realizzava l'eguaglianza politica effettiva di tutti i membri a prescindere dalla ricchezza che possedevano come privati. Praticata la prima cesura tra coloro che potevano accedere allo spazio pubblico e coloro che non ne avevano il diritto, non esistevano più barriere politiche tra i "cittadini". Non era la quantità di denaro, di appezzamenti di terreno o il possesso di altre ricchezze che garantivano il diritto di parlare all’Assemblea, poiché bastava essere proprietari anche solo di un lembo di terra per essere ritenuti membri a pieno titolo della polis. La cittadinanza politica non era graduale, ma piena ed istantanea. Nel momento in cui il privato abbandonava la sfera domestica per esibirsi sulla scena pubblica, in quel preciso istante diventava portatore degli stessi diritti che spettavano a qualsiasi altro privato, di qualsiasi estrazione, cui fosse stato concesso di accedere alla sfera politica. Erano le capacità esibite nello spazio pubblico a distinguere i cittadini gli uni dagli altri poiché, in partenza, venivano forniti degli stessi diritti d’espressione e di ascolto: il più ricco ed il più povero erano "uguali" politicamente parlando e poteva persino accadere che avesse più seguito il secondo se solo fosse stato capace di esercitare meglio del primo l’arte del discorso e dell’azione . Da qui nacque l'ideale politico per cui il governo spetta ai migliori.

 

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